L’ AVANA: NOVEMBRE 2005 – L’ALTRO RESOCONTO

di Dario Nulli

Prologo.

L’Avana sta diventando pericolosa, eccome, però forse esiste un nume tutelare delle vacanze se sono uscito vivo dalla mia “camminata” notturna attraverso l’Avana Vecchia.

Un Candido Intruso! A causa di una serie di circostanze la cui concomitanza ha fatto sì che l’ago del mio personale barometro quella sera fosse tutto puntato su “Sfiga Nera”, mi sono ritrovato paracadutato in pieno Bronx a piedi, senza un soldo in tasca e, ciò che più è grave, visibilmente (molto visibilmente) travestito da “Italiano-fighetto-in-Vacanza-ai-Caraibi”. Ho scarsa propensione al protagonismo, quindi immaginate che sgradevole sensazione la fioca luce dei lampioni habaneri riflessa, anzi, moltiplicata dalla mia camicia immacolata!

Anche le scarpe non mi aiutavano certo, visto che da noi abbiamo la deprecabile abitudine di fare le suole con lo stesso materiale di cui sono fatte le nacchere. Clop! Clop! Clop! La mia galoppata notturna era scandita così. Un “lento” (vedere le ultime 20 finali olimpiche sui cento piani) uomo bianco, scintillante nella sua candida camicina dal valore equivalente a dieci stipendi medi cubani, che galoppava nella notte. Uno nudo, cosparso di melassa e ricoperto di piume al funerale di un boss della ‘ndrangheta sarebbe passato più inosservato. Ecco! E camminando pensavo: “ora mi beccano, mi beccano, mi tirano dentro un portone e mi danno un sacco di botte, e quando si accorgono che non ho nemmeno un soldo mi levano anche la verginità”. E dire che avevo deciso di conservare intatto il retrobottega per quando, anziano e con i percorsi ormonali sovvertiti dal climaterio, avessi conosciuto il “vero amore”!

Per fortuna la variegata umanità che via via incontravo aveva altro a cui pensare che a quello strano gattaccio europeo che vagabondava in territorio nemico. Come la coppia di negri che ho intervistato per chiedere la strada. Padre e madre di famiglia alle tre di notte, con tanto di figlioletti per mano, con le pupille roteanti, completamente frastornati dall’acquavite, mi hanno gentilmente detto di proseguire. Francamente sto ancora chiedendomi come abbiano capito la mia “pregunta”, per metà a gesti e per l’altra metà in dialetto veneto. Ma mi chiedo anche come io abbia capito loro, visto che all’hombre quasi gli cadeva la dentiera.

O come gli strani UFO del Barrio dei travestiti. Io passavo e loro . come fossi invisibile. Intanto professavano vicendevolmente, da un portone ad un altro, quella piccola litigiosità querula propria delle checche. E pensavo ancora: “ora mi vedono e mi danno una mano di bianco”.

Beh, però ho visto per una volta l’Habana verace, piena di umanità brulicante, dedita ad una sano fare un cacchio, con i suoi scheletrici “perritos”, scalcagnati e pulciosi, con le sue case decrepite che sembrano crollare da un momento all’altro ma per nulla desolanti, anzi la cui vista ti scalda il “Corazon”. Quella chiusa fuori dai ristorantini tirati a lucido e dalle case dell’Habano, lontana mille anni luce dalla Plaza della Catedral illuminata dal sole di mezzodì.

L’Avana sta diventando pericolosa, e stressante. Quindi quest’anno non vi parlo dell’Avana, anche perché il “Dopofestival” ha preso il sopravvento sul Festival stesso. Perciò partiamo … dall’inizio. Si, l’inizio del centro abitato di Pinar del Rio. Pinar, patria del tabacco come dio comanda. Affitto di un paio d’auto e via. Che goduria Signori miei, CHE GODURIA!

Partenza.

Partiti finalmente! Malpensa 16 novembre ore 10. Un aereo, uno dei tanti che ogni minuto inesorabilmente si staccano dal varesotto suolo, decolla con a bordo merce pregiata.. Dodici ore dopo atterra all’Avana e come gli altri anni … così avrebbe dovuto iniziare, tant’è vero che l’avevo già scritto prima questo pezzo. E invece … nebbione su Madrid, partenza alle 13:30, corsa a ostacoli nel Barajas verso la coincidenza, che in tutti i 5000 metri della sua lunghezza ha visto il seguente ordine d’arrivo: 1° il sottoscritto, da quel momento meglio noto come “Ultima Chiamata”, 2° il mitico Giorgio Bassan Presidente del Club un po’ affannato ma potenzialmente grande fondista, 3° Pablito Bassan “Amministratore Delegato” del Club, ottimo sprinter (nei momenti di splendore si fuma un Sublimes in meno di un’ora) ma pessimo sulla lunga distanza e ultimo, decisamente affaticato, Enrico Rizzi, Baffo destro del Presidente, noto tenutario della migliore reçevidorìa tabacalera de Bresia, en Buergo Trento.

Pinar.

Ecco, come dicevo, la truppa ha salutato l’Avana (non prima però di aver fatto visita agli amici della Casa del Habano Partagas e pranzato con il nostro Orlando Quiroga) e si è imbarcata su due macchine a noleggio alla volta di Pinar del Rio. La dolce Pinar, città di frontiera come nel Far West, case basse, polverosa, assolata, rumorosa, composta di cittadini un po’ schivi, quasi dei valligiani. Non i disperati succhiasangue dell’Avana, ma gente educata che ancora ti guarda incuriosita perché vieni da Marte, piuttosto che osservarti torva perché vorrebbe aspirarti tutto ciò che hai nel portafogli. Poi lì mangi con quindici dollari. Ah, dimenticavo, quindici dollari in quattro.

Lì intorno ci sono le coltivazioni del tabacco buono e tu lo percepisci. C’è la terra fertile, i Campesinos, gli animali e poi c’è la vita a ritmi inusuali, che nella frenetica Avana non hai certo potuto sperimentare. Intorno la gente va ancora in giro sui carrettini, trainati dai cavalli, come da noi ottant’anni fa. Quel bel terreno marrone-rosso scuro lo si ara con i buoi. Perdonatemi lo sfogo bucolico, ma a me queste cose, sigh, mi commuovono, sob!

Entrati in città le sensazioni bucoliche svaniscono come d’incanto e inizia l’avventura. Slalom tra bolidi anni cinquanta, tenuti insieme col fil di ferro, che ti sfrecciano ovunque come vespe impazzite, gli jineteros che ti affiancano in bici pedalando come forsennati e vogliono a tutti i costi indicarti una casa per dormire, in mezzo alla strada i carretti tirati dai cavalli, infine devi schivare la pozzanghera di acqua putrida prodotta dalla commistione tra la immancabile scrosciata pomeridiana e l’unto naturale del suolo cittadino, prodotto dell’aria densa di nafta proveniente dagli scarichi delle auto …

La Nube tossica. A proposito di scarichi, e poi non ve le spappolo più, siete mai stati un solo minuto dietro uno degli scassatissimi camion cubani, non tutti esattamente catalizzati, magari su di una salita dove non vi è possibile superare? Se sì, complimenti, siete sopravvissuti ad una delle prove più tremende cui può sottoporvi la Isla Grande. Beh, Pinar è una città in salita, o in discesa. Come la vostra predisposizione psicologica più ritiene. Se quando il “camione” scende si scommette sulla tenuta dei freni, quando sale è tutto un florilegio di sfumature solido-gassose, in forma di nube tossica, che vanno dal grigio azzurrognolo del benzene al nero peste di gigantesche nubi di particelle incombuste (carbonella?).

Robai-sta . Basta Avana e anche basta Robaina, anche se è lì a due passi. Andare da lui poi ti offre la scusa per attraversare zone che per un cultore del Sigaro sono poesia pura, con campesinos all’opera, buoi che tirano carretti e qui inizierebbe un’altra tirata commovente ma … basta, il grande vecchio del tabacco ha già troppi visitatori ed una vita estremamente oberata. Può benissimo fare a meno di noi. E probabilmente anche dei nostri soldi. Noi che non abbiamo da render conto a nessuno, preferiamo la Tia Hilda che racconta con grande senso dell’humor la sua avventurosa esistenza.

La Tìa. George, Enrico ed il sottoscritto siamo finiti in una casa coloniale con la imprenditoriale e premurosa Gladys a prepararci colazione, da consumarsi in pieno relax in mezzo a pappagalli, grasse inservienti nere come l’ebano, profumi di frutta e caffè, “perri” di ogni tipo (c’è anche un Sanbernardo! È proprio “avanti” la Gladys!).

Invece Pablito ha ripercorso l’esperienza dello scorso glorioso anno quando, assecondando la sua usuale vena di intrepido pioniere si è stabilito in casa di certa Tia Hilda. Tia Hilda, una sessantacinquenne vulcanica ex professora universitaria, dotata di un sorriso modello tastiera di pianoforte e di un simpatico profilo alla Dante Alighieri. Mai scelta fu più azzeccata caro Pablo! Alla fine con una scusa o con l’altra eravamo sempre lì. Non abbiamo mai riso tanto. Tia Hilda al culmine di una evidente crisi isterico dittatoriale mi ha pure detto che sono un “Animàl”. Lo spagnolo non lo conosco molto, ma il giorno dopo mi è stato spiegato che in italiano “animàl” si può rendere con una circonlocuzione tipo: “giovine a modo, con tanta classe e dall’eloquio forbito”. Grazie di esistere Tia, sei nel mio cuore!!!

La Tia ha tanti pregi. Innanzitutto ha una casa accogliente, e ti ospita volentieri (beh, pagando). E poi lì si mangia bene.

Ricordo ancora l’anno passato quando è scattato l’invito a cena per tutto il gruppo. Per l’occasione avevamo comperato una tortazzona di crema, alla moda isolana, “pannosa”, succulenta e molto ma molto sostanziosa e, per soprammercato – crepi l’avarizia – una trentina di dolcetti, i Capucinos. Temibili funghetti delle fiabe intrisi di rum, come i babà. Lo sforzo economico è esiguo per le nostre europee tasche, a soffrire sarebbero stati casomai i nostri valori sanguigni. Glicemia alle stelle, colesterolo alle stelle, trigliceridi. Mai e poi mai avremmo potuto immaginare che le “stelle” avrebbero giocato una parte così rilevante nella nostra serata.

Puntuale come un esattore delle tasse alle sei del pomeriggio sulla città è piombato l'”Apagon”. Tutti al buio. E purtroppo al buio sono rimaste anche le nostre cuoche. L’avventurosa cottura del pesce al lume di candela, prima di allora, era stata sperimentata solamente anni fa dall’Artusi per poi non essere più ripetuta. Non so descrivervi l’atmosfera straordinaria che ha visto coinvolte: aragostone “enchillade”, gente simpatica assortita, capucinos al rum, birra a fiumi, racconti dei bei tempi che furono, facce distorte da gran ridere nella stellata notte pinaregna. Ah.fermare il tempo!

Da incorniciare poi l’evaporazione dei dolciumi, in gran parte avanzati e quindi finiti in frigo al termine della cena, ma prodigiosamente uscitine già prima che facesse mattino ad opera sicuramente di qualche entità immateriale introdottasi nottetempo.

In realtà gli inquirenti sopettano che la Tia stessa, strisciando con passo del leopardo fino al frigo, si sia sbafata tutto nottetempo per poi, la mattina seguente, sfoderare una patetica espressione stupita con occhio pallato e bocca a tondo di Giotto.

Anche il cibo salato però aveva dato luogo a scenette rimarchevoli. Con l’assistenza di un occultista, stiamo ancora adesso cercando di svelare l’arcano di come il nipotino della Tia abbia potuto far sparire due aragoste intere, per di più “encillade”. E nel giro di pochi secondi. Con un prodigio collaterale l’Apprendista Stregone ha anche contemporaneamente reso invisibili tre quarti dell’intero parco contorni. Non ancora satollo, infine, Mr. Potter ha letteralmente fatto evaporare sotto i nostri occhi due colossali fettone di torta alla panna, che pare si aggirino ancora per l’alloggio di Tia Hilda sotto forma di ectoplasma pannoso. Boh!

Francisco Donatièn. Credo che la nipotina della Tia, Donna Marianella, ragazza di classe e docente universitaria in Pinar, si sia recata alla fabbrica di sigari almeno seimila volte per fissarci un appuntamento con la Direttrice. Il Club si presenta lì alle 10 del mattino e c’era anche questa donnina con lo sguardo deciso, peccato che forse non ci si è capiti, noi volevamo farle un’intervista, Madame, con tutti i crismi. Invece lei al solo pensiero di rilasciare dichiarazioni ufficiali è diventata gommosa ed inafferrabile. No, nooo, è un compito per il responsabile delle relazioni con la stampa. Assì? Ma scusi non è la direttrice? E giù mezz’ora per convincerla a parlarci. Ovviamente i Bassan da italiani pratici ed abituati a risolvere i problemi ed anche i finti problemi, alla fine hanno messo il tutto sotto forma di spensierata-chiacchierata. Data alla situazione una forma compatibile con il suo ruolo, la Direttrice si è un po’ lasciata andare accettando di parlare con la nostra delegazione. Credo che i risultati di questa intervista e della conseguente visita alla fabbrica, li leggerete vergati su un’altra pagina dal mio Presidente. Io invece posso solo dire che non è stato questo il primo contatto di Rizzi con la lenta burocrazia di fuori Avana.

Le sette fatiche di Enrico. Sì neh, se all’Avana ci sono operatori smagati, dai tassisti ai “mediatori di paladar”, e non stanno molto a formalizzarsi, abbàsta che molli la grana, passaporti lo stretto indispensabile, Franza o Spagna purché sse magna, qui in campagna, molto ligi alle formalità, rinunciano anche a qualche incasso. La sera prima per esempio, mandati a dormire tutti quanti, io e Rizzi abbiamo cercato di finire serata in Disco. L’unica disco della città, un postribolo tetro e raccapricciante, circondato da una doppia fila di reticolati (probabilmente elettrificati); all’entrata, rigorosamente chiusa con lucchetto, il più imprenditoriale del nugolo di negri in attesa di non si sa cosa, nella vana speranza di ottenere una mancia, ci dice che per il biglietto dobbiamo rivolgerci . là … ah, sembrava lo spogliatoio. Però! Anche quello protetto da sbarre metalliche! Deve proprio essere un posticino tranquillo, eh? E intanto cercavo di immaginare quel che passava nella testa di Rizzi, per niente avvezzo a situazioni di questo tipo, e mi veniva da sorridere.

Ci avviciniamo allo sportellino. L’uomo dietro la grata sembra il Re degli zingari. Non perché sia coperto di ori o sia sceso da una Mercedes, ma perché sembra un Rumeno, di quelli che ti rubano la radio nel parcheggio, scuro di pelle, sudato e scortesissimo. Grazie all’inferriata (una funzione allora c’è) non mi è riuscito di constatare se si fosse lavato almeno una volta in vita sua. Pazienza questa informazione ve la risparmio. Chiedo se si può entrare. Il principe Rom, scoglionatissimo, con i suoi occhietti da sorcio mi guarda come si guarda un ragno peloso sulla parete del bagno nella serata più afosa del secolo. “Passaporto” – mormora con la voce di De Niro ne Il Padrino. Gli rispondo che il passaporto proprio non ce l’abbiamo, però ci abbiamo i tre dollari. “Allora non si può entrare” – dice senza cambiare l’espressione schifata. Da dentro l’infernale buco si levano le trucide note di un becero Reghettòn. – “Ma possiamo dare la carta di identità” – il nomade non batte ciglio. La trattativa passa in rapida sequenza a patente di guida, tessera a punti della Coop, buoni premio del benzinaio. Niente da fare. Comunque capisco tutto. Deve essere proprio frustrante lavorare lì in quello sgabbiotto. Tanto da farti assumere la faccia idiota di chi ha disgusto per l’esistenza intera. Una vita sprecata dietro la grata.

Per me la cosa era chiusa lì. Conoscendo la stranezza delle regole locali … Certo alcune volte hai il sospetto che siano inventate di sana pianta dallo sfigato di turno che ti mette in difficoltà per rimarcare che sta esercitando potere (anche se, purtroppo per lui, è una fettina di micropotere). Tutto il mondo è paese. Noi abbiamo i vigili, loro hanno i richieditori di passaporto. Rizzi invece, mi giro e lo vedo che mi fissa con gli occhi grandissimi e le sopracciglia alzate, completamente esterefatto. Ma non per la delusione, nooo, non ci teneva affatto a finire la serata in quella fogna e poi aveva sonno. Il buon Rizzi non sapeva capacitarsi di come fosse possibile tutto questo. Il passaporto, il lucchetto, la doppia fila di reti, i negri in coda fuori senza alcuna speranza di entrare, il subumano alla biglietteria, la grata. E poi, scandendo bene l’ultima parola, trova la forza di sussurrarmi “Ma questi sono matti!”.

Il Modulo Blu. Ed è lì che abbiamo coniato il modulo blu. È un modulo che si usa solo a Cuba e serve al turista ad aggirare la burocrazia. Quando un funzionario, un guardiano, un lacché, un pirla che deve giustificare a sé stesso la propria esistenza, ti chiede di dimostrargli che l’acqua è asciutta, estrai il modulo blu, lo compili, lo consegni all’integerrimo scassamaroni e . hai immediatamente diritto ad un altro modulo, quello rosso. E così via. È una maniera alternativa e divertente di passare le vacanze! E serve a capire che al rientro, tra le scartoffie della tua scrivania o nel traffico cittadino, non starai poi così male.

La Casita della Cosita. Un altro posto notevole nei nostri cuori lo occupa la “Casona”, ristorante statale dove per veramente pochi soldi risolvi egregiamente il problema della cena. È stato lì che, in preda ad un afflato organizzativo-affaristico, il nostro gruppo ha confezionato il progetto del locale “Cubano” ideale: “la Casìta della Cosìta” (marchio registrato). Ci sarà un piano in cui fumare un buon sigaro in santa pace, uno in cui assaporare il gusto della cucina Criolla ed uno per gli amanti della “cosita”. Do atto che da noi la “cosita” è un concetto semiastratto ed inafferrabile, per cui bisogna srotolare kilometrici estratti conto o almeno presentarsi alla guida di un’astronave, ma alla Casita il materiale sarà piuttosto diffuso e ben rappresentato, anche nella sua fisicità.

Però la cena ideale a Pinar la fai al Paladar El Mesòn; grandioso maiale hasado e prezzi contenuti (almeno spero per Pablo, visto che ha pagato lui). D’altri tempi l’ingenuità e l’approssimazione che fanno si che non si possa avere un caffè né un dolce di qualche tipo. O forse era una manovra di Pablo per non pagarci l’affogato al tartufo?

Cienfuègos. Ovviamente la Tia non ha monopolizzato le nostre vacanze. Quindi ci siamo mossi, grazie alla nostra intrepida Fabietta Stescionvegon, e ci siamo caracollati con calma olimpica negli agresti dintorni di Vinales e poi giù fino a Cienfuegos. Stupenda cittadina sul mar dei Caraibi fondata dai francesi, per qualche giorno di relax totalissimo.

Locali di una certa classe, in cui si mangia benissimo, in riva al mare e, finalmente, si fuma in santa pace tutti i sigari che vuoi, grazie anche alla provvidenziale vaporizzazione della cubana legge anti-fumo, entrata in vigore alcuni mesi fa e repentinamente accantonata, a quanto è dato capire, per la sua “inapplicabilità”!

Fundadores, il Sigaro Ideale? A proposito di fumo, ma non è che ce ne siamo scordati? Per carità! E, una pregunta hermano, cosa di grazia avrebbero fumato ‘sti quattro desperados membri di un Club di Fumatori di Puros? Sicuramente qualcosa alla moda, che so, il P2 o il D4 riserva o il Sublime. No! Abbiamo scoperto il Trinidad (beh magari io l’ho scoperto, perché i miei compari erano già informati da un pezzo). In particolare il Fundadore. Questi Fundadores sono dei Laguitos lunghi-lunghi e stretti-stretti che non ricordano in niente i cannoni oggi di moda. E a parte una certa “freschezza” (il mio Pres. ammonisce che abbisognano di un invecchiamento prolungato) sono notevoli.

Qualche obiezione? E va bene, lo ammetto, in questa vacanza mi sono scoperto un patetico demodè. Pur non sopportandone le conseguenze, una sottile perversione mi spinge ogni volta ad ignorare le indicazioni degli “opinion leaders”. Poi me ne pento, ma oramai i buoi sono fuori dalla stalla.

Mi riferisco in particolare all’indecente morbosità di godermi dimenticate panetelas e banali coronas, al giorno d’oggi decisamente politically “s-correct”. In effetti l'”Arbiter Elegantiarum” consiglierebbe il sublime “Sublimes” di Cohiba, un sigaro eccellente, ma di dimensioni tali da dover esser impugnato a due mani.

La tendenza purtroppo è questa. Prima di fumare ormai è meglio consultare un reparto di chirurgia maxillo-facciale. Già si mormora che alcune marche, per rintuzzare la concorrenza Cohiba, abbiano in cantiere formati di almeno 80 cm x 32 di diametro, da denominarsi, pare, “Impressionantes”, “Furibondos” o anche “Dos Dias”, con evidente riferimento al tempo necessario per farne fuori uno.

Secondo indiscrezioni di corridoio, in Partagas starebbero pensando al “Teofilo Stevenson”, un potente sigarazzo progettato per rivoltarsi contro il fumatore disattento, sferrandogli, all’occorrenza, un possente gancio destro. Avrà un bracere di 2 metri e mezzo e sarà corredato di sostegno treppiedi venduto a parte.

La notizia ha, tra l’altro, provocato una colossale rissa, scomuniche e sacrifici umani sul sito CCA. I sostenitori della tesi che anziché un treppiedi sarebbe stato meglio un ottoppiedi telescopico si sono scontrati all’arma bianca con quelli fermamente convinti che il “Raccapricciantes” di Partagas lascerà al fumatore un leggero retrogusto di pollo alla cacciatora. Una baraonda!

Per noi è troppo. Il mondo del sigaro diventa sempre più frenetico. Così abbiamo optato per una vacanza anticonformista. Mentre gli altri turisti (i pochi ormai rimasti) entravano nelle Case del Habano della Capitale e le svaligiano (si fa per dire, coi prezzi che hanno messo) di tutto ciò che sta sopra “cepo” 42, il nostro gruppo più tranquillamente, conscio che, anche dopo la razzia di un centinaio di “infoiatos”, troveremmo ciò che cerchiamo, si aggirava senza grandi patemi tra gli “walk in humidores” alla ricerca di pezzi buoni e un po’ inconsueti.

Ah, dopo aver parlato di sigari e relative marche per più di tre righe, temo che la legge antifumo mi ingiunga di avvertirvi che fumare provoca il beri-beri, prosciuga il conto corrente e fa dolere i calli. Non ne sono sicuro ma meglio mettere le mani avanti. E immaginatevi per favore anche una lugubre cornice nera attorno a questo pensiero.

Il Nicho. Non penserete mica che Cuba sia ormai solo mare e fumo, vero? Il Nicho, parco naturale nell’interno dell’Isla. Incantevole. Clima tropicale, atmosfere distanti. Ovunque cascatelle d’acqua gelida immerse nella lussureggiante vegetazione. Un posto che ti strega. Ed una pace che ti avvicina al divino. Solo lo scroscio dell’acqua e la voce melodiosa di decine di uccelli tropicali, laghetti limpidi.

Però questo paradiso lo paghi. Eccome se lo paghi. Per arrivare al Nicho bisogna, prima, sorbirsi un bel po’ di strada “normale” (se così si può dire con tutte le buche in agguato), poi un sette/otto chilometri di strada al limite delle possibilità degli ammortizzatori della nostra Fabietta che però, alla fine, sbuffando e lamentandosi, ci ha portato alla meta. E poi paghi 5 pesos convertibili. Come ha detto un turista davanti a noi alla implacabile esattrice: “Lo stipendio di un operaio?! e per farsi una camminata tra i boschi?!” Anche qui per poter avere il raro privilegio di pagare abbiamo dovuto prima estrarre i documenti d’identità e attendere che tutti i nostri dati venissero trascritti su di un registro dall’inesorabile mastina. Eh sì da noi ci sono le ferrovie dello stato, loro hanno gli sgabbiotti con dentro i registri.

Cayo Vattelapesca (Jutias). Questo mi fa venire in mente un episodio. Non c’entra niente perché è accaduto nel 2003, ma è indicativo. Dopo 150 Km in macchina Giorgio Bassan ed io arriviamo in un posto di cui neppure ricordo il nome, una specie di ex isola, ora collegata alla terraferma da uno strettissimo istmo artificiale. In quel posto deve arrivare una macchina ogni dieci giorni. Prima che inizi l’istmo si materializza un casottino con una sbarra. Da lì spunta fuori un omino. Ci fermiamo. L’omino ci chiede tutti i documenti possibili, poi pretende tutti i dati rilevanti, trascrivendo infine su di un registrone bollatissimo: modello e targa della macchina (chinandosi personalmente davanti al mezzo), numero di passaporto, cittadinanza, contratto di noleggio, data di nascita, colore dei capelli, parrucchiere ufficiale, il mio colesterolo (saputo il quale ha anche avviato delle personali indagini), nome di battesimo della zia Virginia, traduzione della parola “spappolacocomeri”. Poi per cinque dollari (ecco, ancora il privilegio di pagare) ci da due biglietti, del cui numero di serie e colore prende rigorosamente nota. Infine solleva la sbarra e si rimette in agguato nel suo casottino sperso nella giungla. Abbiamo riso per due ore. Chiusa parentesi.

Gli avvoltoi. Ovviamente alla fine ci siamo tutti addormentati sull’erba del Nicho, accanto al fiume scrosciante. Vuoi il rumore delle cascate, vuoi lo stormire delle fronde, vuoi il fuso orario ancora nel sangue … polleggiata collettiva. Però dopo un paio d’ore, accortomi che gli avvoltoi avevano preso decisamente di mira la carcassa ronfante di Rizzi e giravano sempre più bassi sopra di lui, ho suonato la sveglia e siamo tornati. Che posto ragazzi! E che avvoltoi!

A proposito di rapaci. Deciso a comperare una scatolina di Quai D’Orsai Imperiales, sono tra i miei preferiti e non si trovano in Italia, entro in una Casa del Habano e il prezzo già mi frastorna: 270 dollari. “Va bene – dico – la compro ugualmente”. Faccio per pagare e la direttora del negozio mi fa un conto di più di 300 dollari. “Perché?” eh, perché c’è l’otto per cento sul cambio dei dollari e non so cos’altro. Una tassa, così, per invogliare il turista al consumo. Però, ehi, me li sono presi lo stesso. Una piccola follia che spero mi dia momenti di grande gioia tra un cinque sei anni (sempre secondo categoriche disposizioni del mio Prez).

Però sto otto per cento rompe le palle. Se non ci vogliono non fanno che dircelo. Strano il concetto economico di turista che hanno i cubani . Lo stiracchi, lo spremi, lo maltratti, lo derubi, lo ricatti e lui dovrebbe essere disponibile a spendere qualsiasi cifra restando insensibile alle comuni leggi della domanda e dell’offerta. Una cuccagna. Tu ti attacchi ad un turista e lui dissemina dollari sul suo percorso. 10 o 30 fa lo stesso. E non si esauriscono mai, secondo la leggenda che a casa ce ne ha frutteti interi. E poi torna sempre, oh no? . boh!

Ma los Cincos o los Nueves o los Quatros, che è poi lo stesso, Volveràn o non Volveràn? Quièn sabe! Per scaramanzia “Hasta la Vista, Siempre!”